Ci sono posti in Europa che sono sopravvissuti come dolorosi ricordi del passato: le fabbriche in cui gli esseri umani sono stati trasformati in cenere. Questi posti ora sono divenuti luoghi della memoria, aperti al pubblico e visitati da migliaia di turisti ogni anno. Il titolo del film si riferisce al romanzo omonimo scritto da Winfried Sebald e dedicato alla memoria dell’Olocausto. Concentrandosi sui visitatori di questo luogo della memoria fondato sul territorio di un ex campo di concentramento, il film cerca di rispondere a due quesiti. Perché la gente ci viene? Che cosa sta cercando?
Germania 2016 – 94’
VENEZIA – Macchina da presa fissa, fotografia in bianco e nero leggermente sovraesposto: una cancellata con la scritta “Arbeit macht frei”, una folla di persone, che avanzano. Stessa inquadratura della celebre Uscita degli operai dalla fabbrica dei Lumière, ma qui non c’è nulla di costruito, di predisposto, Loznitsa si limita a porre lì il suo occhio meccanico, apparentemente neutro e oggettivo, quasi nascosto, come se volesse spiare le persone prima di filmarle. Poi però ci accorgiamo che non è così: i progressivi movimenti di avvicinamento mostrano il rapporto della Storia con il presente.
Siamo a Sachsenhausen, uno tra i più antichi campi di concentramento costruiti in Germania. Ora funge da sito commemorativo, proprio a due passi da Berlino. Spostando la macchina da presa in vari punti sempre più all’interno del campo fino al forno crematorio, Loznitsa si limita a riprendere una massa anonima di persone che avanzano, osservano, chiacchierano, mangiano, ma soprattutto fotografano. L’inquadratura è fissa, lo spazio visivo è policentrico: tocca a noi decidere cosa vedere, su chi focalizzare la nostra attenzione: la ragazza che gioca con una bottiglietta in testa, il ragazzino che scaccia una vespa dal panino che sta mangiando, la coppia di fidanzati che si fanno un selfie davanti al forno crematorio, la famiglia che si fotografa per ben tre volte davanti al cancello con la scritta… Se la frontalità dell’immagine crea una distanza da ciò che stiamo vedendo, il suono al contrario ci avvolge. Ed è tutto un crepitare di passi, rumori di infradito sul selciato, brusii, risate, click di macchine fotografiche, bip di macchine digitali, suonerie telefoniche e talvolta le voci delle guide turistiche preoccupate, oltre che di illustrare i luoghi, di organizzare i pasti e sveltire i movimenti.
Forse il bianco e nero non indica soltanto una memoria sbiadita, che però finge di essere nitida nelle coscienze dei visitatori. Forse è anche il senso del perché la gente venga a fare del turismo proprio qui. Sachsenhausen, diventata un’attrazione turistica, sembra aver sbiadito il senso della sacralità e del ricordo. Quindi, della memoria della Storia. Loznitsa dichiara di aver voluto girare questo film per cercare una risposta all’interrogativo del motivo per cui la gente si reca a visitare questi luoghi, ma sembra non voler prendere una posizione: lascia che siano le immagini a parlare, sebbene il suo sguardo sia completamente discordante con quello comune, multiplo, delle persone che stanno lì e che a loro volta fotografano, riprendono, creano altre immagini, migliaia di immagini che non vedremo mai. Tutto diventa uguale: l’immagine necessaria e quella superflua si confondono, per cui forse oggi non ha più un senso fare un film sui campi di sterminio. La saturazione delle immagini ne diminuisce la recettività. Oggi tutto si perde tra le tante immagini di youtube e dei social, tra le tante immagini condivise nel mare della rete.
Eppure Loznitsa, (di cui l’anno scorso si era visto il bellissimo documentario Sobytie (The Event) sul tentato putsch avvenuto in Unione Sovietica nell’agosto del 1991, tutto costruito attraverso il montaggio di materiale di repertorio) è riuscito a fare uno dei film più esplosivi, scioccanti e tragici sulla Shoah, implacabile e modernissimo nella descrizione di un presente senza storia.
E qui sta l’accostamento ad Austerliz di W. G. Sebald, a cui allude il titolo del film, uno dei più grandi romanzi del Novecento, incentrato appunto sul tema della memoria, dove possiamo trovare questa riflessione di Austerliz, in visita a Theresienstadt, dove hanno perso la vita i suoi genitori: «A mio giudizio, disse Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più l’impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano solo spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione d’animo, e quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti l’aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luce.» [W.G. Sebald, Austelitz, Adelphi, Milano, 2002].
Alla fine del film la macchina da presa è di nuovo posizionata di fronte al cancello d’ingresso, ma un leggero abbassamento del punto focale produce nello spettatore la sensazione di condividere con tutti quei poveri morti l’impressione di essere calpestato da quelle masse indistinte che avanzano.
Cristina Menegolli – MCmagazine 41