Ci
sono due modi per vedere
Il miglio verde.
Il primo è consideralo la solita "americanata", una storia
di miracoli, magie e sedie elettriche
che si svolge in un penitenziario della Louisiana durane gli anni
Trenta; il secondo è invece lasciarsi andare alla narrazione fluente,
per certi versi piuttosto classica, ma riscattata dallo struggente
finale ambientato ai giorni d'oggi (tranquilli, non lo sveliamo) dove
si precisa meglio lo sguardo di Stephen King, la sua riflessione tra
l'amaro e il beffardo sul mistero di una morte continuamente rinviata.
«Qualche volta, Dio mio, il miglio verde sembra così lungo»,
scandisce la voce del protagonista, e verrebbe quasi voglia di rivedere
il torrenziale film (più di tre ore) alla luce di quella frase. Tratto
dal romanzo di King pubblicato in sei puntate nel 1996, Il
miglio verde
porta la firma di Frank Darabont, che già aveva portato sullo schermo
Le ali della libertà
altra ballata carceraria tratta da un best-seller dello scrittore.
Di nuovo è l'amicizia tra un bianco e un nero a ispessire la vicenda,
anche se stavolta i due non stanno dalla stessa parte della barricata.
Paul Edgecomb (Tom Hanks) è il responsabile del «braccio della morte»:
caritatevole e giusto, si preoccupa di confortare i condannati alla
sedia elettrica, in gergo The Old Sparky, la Vecchia Scintillante,
alla quale si arriva percorrendo appunto «il miglio verde», un livido
corridoio di quel colore. John Coffey (Michael Clarke Duncan), invece,
è un gigantesco nero accusato di aver stuprato e ucciso, due bambine:
ma capiamo subito che l'omone tutto cicatrici, parente stretto del
celebre personaggio di Uomini e topi,
non farebbe male a una mosca, essendo un candido dotato di poteri
taumaturgici capaci di guarire le malattie più gravi e di ridare la
vita. In un clima all'antica hollywoodiana, tra omaggi a Fred &
Gingerquiz n°38,
brutalità carcerarie e divagazioni quasi comiche (quel topolino impertinente
che porta un soffio di vitalità nelle celle), Il
miglio verde racconta
lo sbocciare dello strano rapporto tra guardia carceraria e detenuto
morituro; e intanto, sotto sotto, passa un condivisibile messaggio
contro la pena capitale e i suoi riti feroci, che Darabont restituisce
con impressionante realismo nella seconda esecuzione, quando la sedia
elettrica, va in tilt e brucia letteralmente il corpo del povero condannato
cajun. Magari non è vero che nella prigione di Cold Mountain, giù
nella Louisiana del 1935, le guardie carcerarie fossero così misericordiose,
e certo l'apparato «miracolistico», tra lampadine che saltano e tossine
malefiche aspirate e risputate, potrebbe a volte risultare un po'
ridicolo. Eppure il film, prevedibile nella scansione ma non banale,
risulta a suo modo emozionante, specie laddove la puntigliosa ricostruzione
d'ambiente (sapevate che le esecuzioni avvenivano in una sorta di
stamberga e che una spugna bagnata piazzata sotto la calotta rendeva
più «rapida» la morte?) si sposa a una sottolineatura quasi mistica,
in bilico tra fiaba e parabola. Tom Hanks, appesantito nel fisico,
è toccante nel ruolo di questo funzionario della morte che dopo non
riuscirà più uccidere nessuno: condannato a essere «infettato dalla
vita», simile a un innocente/dolente Nosferatu della nostra contemporaneità...
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